Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Venezia e Cimino: quando i Cancelli del cielo si spalancarono nel loro splendore alla Mostra

Lunedì 4 Luglio 2016

Ci sono due momenti indelebili che legano “I cancelli del cielo”, uno degli autentici capolavori maledetti della storia del cinema, e il suo regista Michael Cimino, morto l’altro ieri a 77 anni, alla Mostra del cinema, distanziati di 30 anni, uno poco dopo l’uscita fallimentare del film che costò il crac definitivo della United Artists (siamo nel 1982, il film è dell’80) e un’altra per la versione restaurata, 4 anni orsono. Due appuntamenti storici, specialmente il primo, che permise sotto la direzione di Carlo Lizzani e l’intuizione del geniale Enzo Ungari (padre di quella sezione memorabile che fu Mezzogiorno/Mezzanotte, purtroppo scomparso troppo presto) di vedere finalmente l’opera integrale sul grande schermo, dopo il saccheggio avvenuto per rendere da parte dei produttori il film più appetibile al pubblico (incassò ricordiamo 4 milioni di dollari a fronte di una spesa più di 10 volte tanto). Il film, che terminò, tra l’entusiasmo generale, alle prime luci dell’alba, visse una proiezione mitica che nessuno dei partecipanti potrà scordare mai.
Quattro anni fa Michael Cimino è tornato, nella sua esile figura di persona ormai inafferrabile, quanto la grandezza del suo cinema, con questo regalo bis, che ha permesso anche alle ultime generazioni di godere dello spettacolo di un film-leggenda, che la miopia di troppi ostacolò in tutti i modi, condannando uno dei più talentuosi registi della New Hollywood a non lavorare quasi praticamente più. E invece, più che “Il cacciatore”, altrettanto epocale film sul Vietnam, che gli regalò fama e Oscar nel 1979, “I cancelli del cielo” è la summa quasi incontrollata di un’idea di cinema totalizzante, spiazzante, estrema, che rilegge la conquista del West in una chiave politica feroce tra frontiera e lotta di classe, dove il paesaggio assume una valenza così spietatamente ambigua, lettura terminale e parossistica di tutte le contraddizioni americane, da lì fino a oggi. Che è poi la vera ragione per la quale gli americani non perdonarono allora e mai questa monumentale opera. Qui, ancor più che nella celeberrima scena della roulette russa del “Cacciatore”, Cimino espande la sua visione sferzante verso una mitologia della società che solo i grandi possono esaltare, rimettendola in discussione. E dove Cimino tocca i nodi nevralgici di una Storia popolata più di ombre, che di luci.
Nato a New York a un passo dalla II Guerra Mondiale e trovato morto l’altra sera nella sua casa di Beverly Hills, Cimino non è stato il regista di questi solo due film enormi, anche se la carriera, stroncata appunto dal flop del suo capolavoro, non è andata molto oltre numericamente. Da “Una calibro 20 per lo specialista” (1974), lucida anti-lettura gangster della provincia americana, fino a Verso il sole (1996), un western anomalo come un viaggio dell’anima, di malinconica tenerezza, restano solo da ricordare il remake di “Ore contate” (1990), il folgorante “L’anno del dragone” (1985), violenta rappresentazione di una Chinatown spietata, e “Il siciliano” (1987),  romanzato scandaglio di una figura complessa come Salvatore Giuliano, dalla parte opposta del rigore di Rosi, che in Italia scatenò numerose polemiche.
Ci lascia, dopo il Pardo d’oro alla carriera ricevuto l’anno scorso a Locarno, uno dei più intrepidi ed emarginati registi, un talento non assimilabile, un regista capace di fondere insieme clamorosi flop a opere immense, uniche, sconvolgenti, come solo ai veramente grandi è permesso. Ultimo aggiornamento: 05-07-2016 18:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA