Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Cannes pensa più alla propria fama
di grandeur che a quella del cinema

Martedì 24 Maggio 2016

Se continuiamo a chiederci sempre più spesso a cosa servano oggi i festival, non solo perché la fruizione delle opere è radicalmente mutata in questi ultimi due decenni, di più bisognerebbe farlo con le giurie, che sembrano quasi sempre incapaci di cogliere quegli autentici fermenti, linguaggi, percorsi vitali che il cinema, in modo anche controverso, sembra deciso a segnalare, premiando al contrario spesso opere che si “accontentano” dell’impegno politico, dilemmi morali e altri significati profondi, ma che ricalcano schemi sicuri, consolidati, “corretti”. Poi è chiaro: ognuno è libero di amare il cinema che vuole, ma se il compito di una giuria è quello di individuare, tra tutte le proposte, quelle che si distinguono per un motivo o un altro, (anche) questa di George Miller ha fallito.
Il caso della sorprendente (e disturbante) Palma d’oro a Ken Loach e al suo “I, Daniel Blake” amplifica questa snervante discussione, in atto già durante il festival ed esplosa al momento della premiazione, dove nessun critico, cinefilo e perfino spettatore si sarebbe aspettato di veder elevato a miglior film un’opera (in sé certamente meritevole) che riproponeva lo schema arcinoto di questo regista (politico, ma anche ideologico e manicheo: i buoni sono sempre tutti molto buoni; e i cattivi, sempre tutti molto cattivi, pensiero di sicuro meno efficace di un tempo). Un cinema, in pratica, sempre uguale a se stesso (non per questo meno utile, ovviamente), ma che in un festival perfino esageratamente ricco di proposte (pur in una costante linea conservativa e appoggiata a nomi sicuri) è sembrato lo sguardo polifemico di una giuria, distratta su quelle 4-5 opere che hanno scaldato veramente la platea e offerto la possibilità di discussione. Gli ottimi film di Verhoeven, Puiu e soprattutto Jarmusch sono infatti tornati tutti a mani vuote; ma anche Assayas, Mungiu e perfino Refn, Arnold, Ade, Guiraudie, che pure hanno spavaldamente diviso i giudizi, ma con tentativi di non adagiarsi sulla convenzionalità, hanno raccolto meno di quanto fosse logico supporre. A parte Xavier Dolan, che ormai il festival coccola sempre come un proprio figlio. E come tutte le madri troppo amorevoli rischia di rovinarlo.
Cannes si è confermato un teatro bulimico, ma contradditorio nelle scelte. Autori sempre e comunque privilegiati, ma non quelli più sganciati da logiche produttive industriali o di sicuro rendimento economico: ecco dunque Pablo Larraín relegato per la terza volta su tre presenze alla “Quinzaine”, ecco Albert Serra quasi impossibilitato di essere visto (data la programmazione folle) o Paul Vecchiali, invitato per la prima volta a 80 anni suonati; e si potrebbe continuare, dicendo per esempio che opere come “The last face” di Sean Penn sono un insulto se messe in concorso (di certo Virzì, Giovannesi, e anche il Bellocchio meno bellocchiano di “Fai bei sogni”, tutti esclusi, avrebbero fatto una figura migliore). D’altronde la coppia Lescure-Fremaux, al suo secondo anno, dimostra la volontà di immergere l’Autorialità quasi “di regime” in una temperatura adatta a un cinema che sposi industria e glamour, fascino e temi caldi, evitando gli incroci con i registi più anarchici ed esclusivi, radicali e oltraggiosi. Se poi gran parte del concorso porta marchi ripetitivi (Wild Bunch e/o Canal+, guarda caso quest’ultimo fondato proprio dal presidentissimo Lescure), è chiaro che insinuare una certa logica forse non è sbagliato.
Cannes è troppo tronfia per rivedere i propri schemi. Certo il Concorso, nella media, ha lasciato buoni, se non ottimi ricordi e nelle altre sezioni (potendolo fare) si sono viste altrettante cose egregie. Ma resta la sensazione che tanto sfarzo serva più alla propria fama di grandeur, che a quella del cinema.
  Ultimo aggiornamento: 05-06-2016 11:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA