Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Le (brutte) confessioni: più giallo metafisico
che film politico sulla crudeltà della finanza

Sabato 23 Aprile 2016

Basterebbe già tutta la sovraesposta solennità con la quale si apre il film e poi mai abbandonata a mettere “Le confessioni” tra le opere che comprendono, con incontrollata devozione, molti dei vizi di un cinema italiano mortale, che stavolta vorrebbe raccontare il Male senza sporcarsi troppo le mani: dialoghi artefatti, una regia vacuamente estetizzante, tempi di sospensione biblici, vuoti silenzi, stanze da natura morta. Vi concorre ovviamente la consueta ieratica presenza di Toni Servillo (un monaco italiano), dove ogni battito di ciglia e ogni breve frase sembrano voler squarciare le tenebre di ogni ingiustizia, ma non vanno mai oltre il bisbiglio di una ipotetica superiorità morale.
Siamo in un qualsiasi resort di lusso, dove una specie di G8 di economisti mondiali sta per decidere una manovra funesta per l’umanità. A questo summit di vampiri del denaro sono invitati dal presidente del Fmi (un Auteuil di maniera), un po’ bizzarramente, un monaco appunto, una scrittrice di best seller per bambini e una rockstar. Ma una morte inaspettata sconvolgerà la vigilia della riunione decisiva.
Roberto Andò, dopo la discreta commedia politica “Viva la libertà”, firma una specie di versione cimiteriale de “La grande scommessa” puntando il dito sul degrado etico della casta dominante, perdendosi però in una rarefatta narrazione dei giochi di potere, alla ricerca di un’autorialità del racconto, una supremazia registica sulla denuncia politica, fino a cadere in uno sterile giallo metafisico, che a un certo punto prende perfino il sopravvento. In pratica partendo da uno spunto che sembrerebbe richiamare “Todo modo” finisce per assomigliare a una specie di “Youth” della finanza, perché Andò non evita minimamente di sorrentineggiare spavaldamente, pur non avendo il talento dell’originale, già di per sé, com’è noto, vittima da tempo del suo stesso stile.
La liturgia del pentimento, che sfocia nella lunga notte della confessione (proposta nel film a intervalli, mentre divampano la ricerca della verità sulla morte e il panico tra quelli che sono rimasti, abbastanza ingiustificato), si sfalda in un carosello di figure più insignificanti che crudeli (per tacere dell’apparizione all’improvviso in teleconferenza di un’ipotetica Grande Capo, alla 007) e in un festival contemplativo della metafora spinta, con inserti surreali di volatili e cani, che culmina perfino in una scena francescana e in un finale chapliniano, con simbologie (la figura del monaco) azzardate.
Troppo ambizioso, per niente spietato e nemmeno grottesco, Andò sciupa così quel poco che tenterebbe di dimostrare: la caduta di ogni salvagente morale per una società avida, ormai senza valori. Ma ci vorrebbe un altro film.

Voto: 1,5/5




SENZA LASCIARE TRACCIA: E IL FILM NE LASCIA POCA - Bruno (Riondino) è malato: gli esami non sono stati positivi, probabilmente non ha molto da vivere. La moglie Elena (Cervi) ottiene un importante incarico in un lavoro di restauro, nel luogo dove Bruno ha trascorso la sua infanzia. Con un segreto che ancora gli pesa. E che ora vuole risolvere.
Gianclaudio Cappai, al debutto, dimostra di saper cogliere bene atmosfere e situazioni di un’inquietudine pesante, tra sospensioni improvvise e passaggi nella memoria. Ma il film s’incaglia vistosamente su una sceneggiatura approssimativa, che fa sbandare una narrazione che ha diverse incongruenze e personaggi fragili. Non aiuta nemmeno il montaggio, che sciupa il climax della storia con interferenze in parallelo, che riescono solo a togliere tensione e ferocia. 
Voto: 2/5
 


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