Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Kore-eda e la famiglia: illegale ma felice
Cucchi, una ferita ancora aperta sulla pelle

Venerdì 14 Settembre 2018


Che cos’è una famiglia? In Italia un dibattito ansimante da tempo cerca di negarne forme alternative, mentre la realtà dimostra il contrario. Il giapponese Kore-eda Hirokazu, uno dei grandi registi contemporanei, da tempo sonda gli equilibri all’interno di questi piccoli nuclei, per dimostrare che il concetto di famiglia è in realtà meno rigido: «Secondo te che cosa ci unisce?», chiede l’uomo alla moglie. Lei, dopo un attimo di esitazione, risponde: «I soldi. Normalmente è così». Ma lui ribatte: «Ma noi non siamo normali». In effetti l’unione che lega Osamu e Hatsue, con nonna e bambini a carico si direbbe una vera e propria famiglia; ma non lo è. E lo scopriamo presto. Più tardi, invece, verranno a galla anche segreti più drammatici, emersi per un fatto inatteso, non calcolato. E il mondo familiare che stava in piedi contro ogni regola e perfino contro la legge non si regge più.
Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, “Un affare di famiglia” (titolo italiano generico e puntualmente traditore) è un film commovente e perfino spietato nei sentimenti, che mostra come sia tutt’altro che condannabile far finta di essere una famiglia e commettere ogni giorno piccoli atti delinquenziali (padre e bambini rubano nei negozi per mancanza di mezzi economici adeguati, da cui il titolo internazionale più coerente “Shoplifters”) o eticamente controversi (la ragazza più grande fa la prostituta in un locale), se tutto questo allevia la solitudine, specie quelle dei bambini, trovando la capacità di creare una “comunità” illegale, ma felice.
Ribaltando il suo film capolavoro (“Nessuno sa”), dove una madre sconsiderata abbandonava i propri figli costretti ad arrangiarsi da soli, qui Kore-eda costruisce l’unità di affetti e premure (i bambini sono dei trovatelli, ad esempio) attraverso il soccorso e la pietà, mostrando come l’artificialità di una famiglia improvvisata sia spesso terreno più fertile per una vita migliore di quella che garantirebbe una realtà legale (il tentativo di riportare uno dei bambini dai veri genitori, naufraga di fronte alla loro conflittualità estrema). Semmai, se ce ne fosse ancora bisogno, il regista nipponico spiega come le istituzioni al loro ingresso nella storia, nella loro esattezza sociale, si dimostrino devastanti nel risultato finale, disintegrando un mondo che a suo modo creava pace e serenità, ricomponendo soltanto le vecchie solitudini, come nel finale struggente.
Regista fondamentale per capire come oggi la famiglia rappresenti, in tutte le sue forme, ancora la possibilità di sopravvivenza per chiunque, Kore-eda è oggi probabilmente il vero erede del grande Ozu, capace di addentrarsi nelle stanze di vita quotidiana, raccontando con una delicatezza sorprendente la difficoltà dello stare assieme. Ma anche la sua necessità. E la sua bellezza.
Stelle: 4


SULLA MIA PELLE - Un’opera di impegno civile, che fa riferimento a uno dei fatti di cronaca nera più controversi degli ultimi anni: la morte, durante la detenzione cautelare, di Stefano Cucchi, ancora oggi oggetto di procedimenti penali che hanno più volte ribaltato una verità che a tutti sembra essere la più probabile. Il regista Alessio Cremonini non costruisce un “film a tesi”, ma si limita, anche esteticamente, a una elencazione minuziosa dei fatti, costruendo un percorso cronachistico che accende la rabbia e lo sgomento, ma che cinematograficamente è piuttosto piatto (specie nella parte familiare, più debole), ravvivato soltanto nell’ultima parte, specialmente dai dialoghi con un altro detenuto, probabilmente immaginario. Ne esce un cammino si direbbe cristologico (c’è un innato senso al martirio del ragazzo) che tocca sicuramente il cuore, ma che non si risolve in una forte chiave estetica, come per esempio riuscì a fare Steve McQueen con il suo “Hunger”, dove il corpo diventava l’elemento dominante. Certo Alessandro Borghi svolge un lavoro mirabile, anche sulla voce (non a caso quella vera si sente in coda al film) e aiuta lo spettatore nella dolorosa partecipazione, tuttavia “Sulla mia pelle” denuncia i propri limiti nell’impostazione di una regia che osa poco.
Stelle: 3

REVENGE - “Revenge”, come avverte inequivocabilmente il titolo, è un film sulla vendetta. Brutale. Eccessiva. Tre uomini. Cacciatori. Una donna. Volendo un elicottero, come ulteriore passeggero personaggio. Il deserto. Tutto qui. Uno stupro, il cameratismo maschile che non solo lo copre, ma lo esalta. La combattività della vittima, che non solo riesce a superare ogni violenza, ma la ribalta decuplicata contro i suoi carnefici.
La francese Coralie Fargeat ribalta lo spettro famelico del maschio in una esuberante pioggia di sangue, dove i corpi passano dalla loro spavalderia erotica (l’inizio caloroso nella villa) alla mappa rappresentativa di ogni ferocia incontrollata, come in quel finale dove uomo e donna (lei è Matilda Lutz, straordinaria icona di desiderio e crudeltà) si scontrano definitivamente (occhio al piano-sequenza), in una nudità irrimediabile senza ormai alcun riparo.
Nella tellurica continuità di azioni furibonde, la greve rappresentazione si coniuga con lo sguardo femminile che ribalta, nel loro efferato simbolismo, i codici gender stereotipati in un’estetica hard-pop, dove il racconto basico aspira a una carnalità sensazionale, tra piacere e atroce dolore, corpi pronti all’orgasmo e alla più sconvolgente devastazione di sé. 
Stelle 3
  Ultimo aggiornamento: 23:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA