Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Halloween al femminile e poca Euforia
Il meglio è a Marsiglia: Transit grande film

Venerdì 26 Ottobre 2018

Quando nel 1978 uscì nelle sale “Halloween – La notte delle streghe” di John Carpenter, all’epoca regista emergente, forse non fu subito chiaro di trovarsi di fronte a un’opera epocale, come spesso accade per i film che rinnovano radicalmente lo sguardo, non solo per essere considerato oggi il primo esempio significativo e importante degli slasher movie, dove un maniaco omicida uccide con arma da taglio vittime per lo più giovani. A cominciare dal carillon ossessivo della colonna sonora (com’è noto dello stesso regista) e da quella superba soggettiva iniziale, “Halloween” infrangeva, aggiornandoli, codici e narrazione, in un esemplare dominio della suspence in modo teoricamente hitchcockiano, dove però lo spettatore si trovava a sostituirsi al disturbato Michael Myers, figura emblematica dello Psicopatico fin dall’infanzia. Nel delirio di sequel che ha portato la serie a infrangersi nella ripetitiva inutilità, un’attenzione se l’è meritata la doppia presenza di Rob Zombie (“Halloween – The beginning” e “Halloween II”), rimaneggiamento di tutto il materiale narrativo e psicologico nel modo autorialmente malsano del regista, ma è da questa nuova intromissione (l’undicesima in totale) di David Gordon Green, in cui si cannibalizza l’intera sequenza di sequel, che “Halloween” riparte con le regole assegnate dall’originale da Carpenter, qui anche produttore esecutivo e ovviamente autore della colonna sonora, avallando insomma l’operazione.
Gordon Green, regista discontinuo tra l’approccio autoriale e la cianfrusaglia, ritrova, 40 anni dopo, la Laurie di Jamie Lee Curtis (l’unica superstite della mattanza iniziale) e il Michael di Nick Castle; e questa è già una dichiarazione di appartenenza griffata. Ma da tale incandescente rapporto non sa trarre quella opportuna, vibrante attrazione che sarebbe potuta nascere all’interno di una rivalità vendicativa, perché è proprio il personaggio di Laurie il più deludente, appiattito in una rappresentazione di ossessione nervosa e inalienabile, che tuttavia si ferma al suo aspetto più superficiale.
Il film parte dall’evasione di Michael, 40 anni dopo la famosa strage: il furgone che lo trasporta da un ospedale psichiatrico all’altro è vittima di un incidente, causato dallo stesso serial killer. Di nuovo in circolazione, Michael si mette ad accoltellare un po’ tutti (occhio ai due giornalisti, spavaldamente ingenui), in attesa dello scontro finale con Laurie. A Gordon Green non interessa minimamente una riflessione sul Male e se da un lato, opportunamente, evita ogni contatto stilistico con il Maestro e con l’horror anni ’70 (ma alcune situazioni sono riproposte totalmente a ricalco nei risultati), qui si organizza sugli stilemi di oggi, però assecondandone i cliché, anche abusati. E non osa mai, rimanendo sempre al di qua di quella linea gialla, di cui si parla all’inizio del film. E così ci si deve accontentare di una liberazione dal boogeyman, l’Uomo nero, ad opera di tre donne, di generazioni diverse (madre, figlia e nipote), accentuando lo spirito femminista, in linea con le aspettative di oggi. Ma è troppo poco, per dare anche un senso a tutta l’operazione
Stelle: 2



LA DONNA DELLO SCRITTORE: IL TRANSITO DELLE ANIME IN FUGA - In fuga dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, Georg arriva a Marsiglia, dove, dopo aver acquisito l’identità di uno scrittore che si toglie la vita, cerca un pass per arrivare in Centro America. Qui viene a contatto con altre persone che vivono la loro clandestinità.
Il regista tedesco Christian Petzold (“La scelta di Barbara”, “Il segreto del suo volto”) continua a comporre un cinema che va perennemente decrittato, sempre costipato in labirinti di storie, dove anche la Storia perde i contatti con il tempo, trasformando il film in un percorso circolare ed eterno, con i personaggi che appaiono e scompaiono come fantasmi e l’oggi è come ieri e come sarà domani, perché i clandestini e i migranti saranno sempre costretti a fuggire, a nascondersi, a essere in transito (da qui il titolo del film in originale, purtroppo tradotto in italiano in “La donna dello scrittore”, banale e perfino fuorviante). Fatta la tara di accattivanti sbandamenti narrativi iniziali, lo spettatore è attratto da un racconto mai convenzionale, dove lo sguardo concreto del regista tedesco dà alla Storia un significato universale e il melò lega i rapporti umani continuamente minati, come la storia d’amore portante che non riesce a realizzarsi.
Tratto dal romanzo di Anna Beghers, il film è un’opera a intarsio, volontariamente sconnessa nel tempo (la vicenda è trasportata ai giorni nostri, mantenendo tuttavia contatti con l’epoca originaria), che ha un respiro tra il fascino e il misterioso, ben sorretta dal volto problematico di Franz Rogowski e da quello altrettanto spaesato e seducente di Paula Beer (Marie), motore emozionale e sentimentale di tutto il groviglio di sentimenti, fughe e drammi. La distorsione storico-temporale è controllata con coraggiosa abilità, mentre il porto marsigliese diventa il luogo stanziale per una speranza e il punto di partenza per la libertà, sempre declinato nel pericolo, dove anche la beffa, come insegna il finale, può essere in agguato.
Sorretto da una voce narrante che ne accentua la letterarietà e si interseca con i gesti e le azioni dei personaggi, a Berlino, dove il film era in concorso, avrebbe meritato più attenzione.
Stelle: 4
 

EUFORIA, MA POCA - Matteo è un giovane imprenditore brillante e gay. Suo fratello Ettore è un professore, al contrario, riservato e introverso. L’improvvisa grave malattia di quest’ultimo riavvicina i due, cercando un’intesa non sempre facile. Dopo “Miele”, la Golino affronta nuovamente il tema della morte, stavolta nella chiave opposta: lì si parlava di eutanasia, qui di rimozione. Ma il racconto familiare fatica a trovare una forza continua dentro ai temi principali della fratellanza, malattia, omosessualità, con un po' troppe terrazze e una convivialità alla Ozpetek, che alla fine gli nuoce. La sceneggiatura non sempre aderisce alla storia con quella immediatezza che servirebbe e il film, per lunghi tratti, resta avvincente per la prova attoriale di Scamarcio, che è Matteo. Se Mastandrea (che è Ettore) conferma la sensazione di stabilizzarsi troppo su personaggi dall’indole ripetitiva, il film alla fine è piuttosto irrisolto, nonostante il tentativo di un finale poetico, ma anche abbastanza semplice.
Peccato perché la scena iniziale (davvero accattivante) faceva supporre un film molto più libero e personale, invece la Golino regista, rispetto a “Miele”, si adagia troppo sui personaggi; e sugli attori. E si incanta sulla storia.
Stelle: 2½

DISOBEDIENCE: L'AMORE NECESSARIO
- La morte del rabbino induce al ritorno a Londra della figlia Ronit, da tempo allontanatasi dalla comunità ebraica per accasarsi a New York. Il suo ritorno fa tornare a galla il suo rapporto affettivo con Esti, amore nascosto dell’adolescenza, oggi sposa di Dovid, probabile nuovo rabbino, con il quale le due donne formavano un tempo una solida amicizia. Ma oggi i tempi sono cambiati e le due donne, pur in modo diverso, hanno ripreso ad amarsi, portando scompiglio nella società.
Sebastian Lelio, dopo “Gloria” e “Una donna fantastica” torna a esplorare l’universo precario di persone messe in difficoltà dal pensiero sociale, mostrando ancora una volta una sensibilità non comune nel raccontare storie di donne in lotta con il mondo e per questo in qualche modo emarginate o solitarie. Pur in una trama più convenzionale rispetto ai film precedenti, il regista cileno trae dal romanzo di Naomi Alderman la forza di una relazione esplosiva, anche con una scena lesbo tutt’altro che banale.
Stelle: 3
 
  Ultimo aggiornamento: 14:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA