Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Blade runner fa di nuovo centro
Affascina il sequel di Villeneuve

Venerdì 6 Ottobre 2017

Immersi da 35 anni in quell’angosciante atmosfera piovosa di caccia perenne (ma nella finzione cinematografica sono solo 30, dal 2019 al 2049), dentro le architetture barocche e claustrofobiche di una realtà immaginaria rivelatasi ancora una volta fallace (la Los Angeles 2019 di Ridley Scott è molto lontana dalla nostra attualità), abbiamo trascorso tutto questo tempo interrogandoci sui confini ambigui che separano uomini e androidi, sulle loro esistenze disorientate e imprevedibili, vagando attraverso le troppe versioni del capolavoro del 1982.
Oggi Denis Villeneuve ci spinge più in là non solo nel tempo, ma anche nello sguardo, nello sfarzo di una rappresentazione che porta il caos alla sua astrazione, spodestando le attrattive noir in un geometrico avamposto di perlustrazione dannata, dove la perdizione dei ricordi resta l’archetipo di un’esistenza dolorosa.
Il regista di “Prisoners” e soprattutto “Arrival” chiede alle colorazioni di Roger Deakins (fotografia superba, dai controluce seducenti) di accompagnarlo in questo viaggio attraverso l’ignoto, dove, ancora più di allora, l’ignoto siamo noi stessi, a chi apparteniamo, materia o no, carne o ologramma. E allora lo spazio si fa più metafisico dentro una concezione scenografica che si snoda quasi esibizionista nella sua bellezza.
Sono passati 30 anni. La Tyrell è fallita, i suoi replicanti sono messi fuori legge. Oggi c’è Neander Wallace, che con la sua “fabbrica” accarezza un sogno ancora più grande: replicanti obbedienti e la speranza di riuscire a procreare per una nuova razza perfetta. Ma bisogna eliminare i vecchi Nexus 8. Ecco dunque il blade runner di oggi, l’agente K (quasi una reminescenza kafkiana, con quella sola lettera indicativa), scovare all’inizio del film un replicante della vecchia generazione, ma ricavarne dalla sua morte un dubbio esistenziale atroce. Ricordi, ancora ricordi: ma sono veri o impiantati? Chi è l’agente K? Davvero un replicante?
Villeneuve ha grande rispetto per il capolavoro di Scott (qui produttore esecutivo), restandone a giusta distanza con un sequel che s’imparenta quasi con pudore; forse si inceppa nella troppa scrittura e in spiegazioni a volte non necessarie, ma spalanca la vista su mondi indimenticabili. Il passato affiora continuamente: dagli accostamenti vintage come il rifugio di Deckard/Ford, la cui entrata in scena è indimenticabile, pur “condannato” ormai a riportare sullo schermo i suoi eroi più celebri, come già accaduto con Han Solo, fino alla nostalgia tattile degli oggetti; ecco ancora Marilyn, Elvis, Sinatra, il juke box, il whisky... Se Ryan Gosling è perfetto con quel suo sguardo algido e trasparente, come il corpo fantasma di Joi (la bellissima, sensuale Ana de Armas), il sinistro Jared Leto è il nuovo padre-creatore di un’avventura sempre più cristologica, mentre la musica di Hans Zimmer e Jóhann Jóhansson si accosta felice nei riverberi elettronici di Vangelis. Forse non sarà un capolavoro come il prototipo, ma è un film notevole. Forse non avrà dialoghi che passeranno alla storia, ma certo è un sequel che sarà impossibile dimenticare.
Stelle: 4


120 BATTITI AL MINUTO: L'AMORE AI TEMPI DELL'AIDS - Anni ’90. Un gruppo di giovani attivisti gay francesi contestano con azioni anche violente i silenzi e i ritardi delle istituzioni e delle case farmaceutiche nella lotta contro l’Aids. Molti di loro sono sieropositivi e il regista Robin Campillo li segue nelle lunghe discussioni assembleari e nella preparazione delle attività dimostrative, in un clima di crescente tensione anche interna ai ragazzi.
Un film sincero e partecipato, ma anche convenzionale nella struttura (dibattito, serate in discoteca, scene di sesso), che sfiora a tratti una narrazione consumata; ma la storia di due attivisti che si amano, fino al tragico epilogo, corre parallela alle lotte sul campo, creando momenti emozionanti. Nel disegnare esistenze drammatiche segnate dalla malattia lascia alla fine una commozione vibrante, soprattutto nel finale dove l’esposizione del cadavere assume un significato simbolico e politico, nonostante la processione degli amici sia ripetitiva e lunga (ma è il film che dura una mezzora di troppo). Per capirci “Milk” riusciva in minor tempo a essere più compatto e incisivo. Bravissimi i giovani attori, soprattutto Nahuel Pérez Biscayart nel ruolo sofferto di Sean. Gran Premio a Cannes (ma molti si aspettavano la Palma), polemiche in Italia sul divieto ai 14 anni. 
Stelle: 3

AMMORE E MALAVITA: NAPOLI È UN MUSICAL - A Napoli il tentativo di eliminare Don Vincenzo ‘o re d’o pesce” fallisce. Ma la moglie escogita un piano per farlo credere morto, sperando così di lasciare la città e rifugiarsi in una bella spiaggia caraibica. Allora Donna Maria mette in scena un finto funerale, dove in realtà ci sta comunque un morto, un sosia del proprio marito. Ma la fuga è tutt’altro agevole. Raccontato in un lungo flash-back conferma il talento dissacratore ed eccessivo dei fratellli Marco e Antonio Manetti, in un divertente e pirotecnico calderone tamarro dove si sommano Gomorra, Hong Kong, il musical, sparatorie e melodramma, finzioni e tradimenti, morti che cantano, inseguimenti e amori ritrovati. Se le canzoni di Pivio & Aldo de Scalzi sono una componente essenziale (musicalmente tutte belle), dove Raiz degli Almamegretta è la voce trainante, la singolare centrifuga di elementi porta la vicenda a snodi narrativi puntuali, grotteschi e spassosi, dove anche gli interpreti sono impeccabili, da una notevole Claudia Gerini al perfetto Carlo Buccirosso, ma l’intero cast lo è. Certo si potrebbe ricordare come già vent’anni fa Roberta Torre portò a Venezia un’opera come “Tano da morire” che scatenò entusiasmo e ilarità, assai simile per intuizione e ingredienti; si potrebbe anche aggiungere che forse “Song’e Napule” fu più sorprendente e che qui la prima parte non è così fluida come la seconda; ma si corre verso un finale con un crescendo irresistibile. Innegabile comunque che il divertimento (intelligente) sia assicurato anche da un regia ispirata.

Stelle: 3

I MIGRANTI DI AI WEIWEI: UNA DELUSIONE - Umanità in fuga, in cerca di rifugio, vivendo in condizioni disumane, in luoghi e situazioni indecenti. Il film di Ai Weiwei, artista cinese apolide, è una cocente, enorme delusione, perché “Human flow” è solo una interminabile carrellata di 140’ toccando ogni continente, ma senza andare oltre una banalità di riprese, spesso aeree col drone, su campi profughi sterminati o città tumefatte dai bombardamenti, svilite paradossalmente da una ricerca estetica ossessiva. Al film manca il farsi un contradditorio che indaghi e spieghi: si accontenta solo di guardare e giocare con la propria presenza privilegiata di osservatore. Uno spettacolare, inerte bignami di tragedia esistenziale. 
Stelle: 1½ Ultimo aggiornamento: 07-10-2017 00:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA