Costretta a nuotare per vivere
Katia diventa una campionessa

Domenica 2 Agosto 2015 di Alberto Comisso
Katia Aere
2
PORDENONE - Quando il nuoto significa vita e, cosa ancor più gratificante, ti spinge, a 43 anni suonati, sul primo gradino del podio in un Campionato italiano. Pensare che Katia Aere, infermiera professionale in servizio all'ospedale di Spilimbergo, di scendere in vasca non ne voleva proprio sapere. È stata però costretta, quando i medici l'hanno messa di fronte ad un bivio: vivere oppure morire a 30 anni. E per salvarsi doveva nuotare.

Un bivio tremendo. Cos'è successo?

«Nel 2003 ho cominciato, all'improvviso, a non deglutire e a non muovermi più. Il giorno prima, domenica, era stata a correre a cavallo la mattina, mentre nel pomeriggio, in compagnia dei miei genitori, ero andata a passeggiare in montagna. Il lunedì successivo la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Mi è stata diagnosticata una malattia autoimmune, la polidermatomiosite, in cui i muscoli danneggiati degenerano verso la fibrosi».

A quel punto il mondo le è caduto addosso ...

«Ho pensato: è finita. Non riuscivo più a muovermi. Ero prigioniera in un letto d'ospedale. Se avessi avuto la finestra vicina, credo l'avrei fatta finita: non sopportavo i dolori e, cosa ancora peggiore, quella malattia con cui era iniziato tutto. La cura, però, ha cominciato a farmi effetto e, nel giro di qualche tempo, prima con la carrozzina e poi con le stampelle, ho ricominciato a muovermi».

Anche a lavorare?

«Sì, ma non più con la mansione di prima. Ridotto l'orario di lavoro, il mio posto è diventato un ufficio dietro ad una scrivania: avrei dovuto occuparmi di amministrazione».

Aveva ripreso a condurre una vita (quasi) normale?

«Magari. Nel 2008 la polidermatomiosite aveva attaccato i miei polmoni. Per continuare a vivere avrei dovuto cominciare la ossigenoterapia. Ho capito che la situazione stava precipitando e che stava avvenendo quello che i medici mi avevano pronosticato cinque anni prima».

E a quel punto come è riuscita a uscire nuovamente dall’incubo?

«Sono stata messa di fronte ad un bivio, poiché la mia ancora di salvezza, da lì in avanti, sarebbe stata la piscina».

Lei, però, odiava il nuoto ...

«Vero, ma ho dovuto superare quelle paure ereditate dalla mamma, chiudere gli occhi e superare tutti i timori».

Va bene la fisioterapia in acqua, ma l'attività agonistica?

«Tutto è cominciato nel 2012, dalle Olimpiadi di Londra. Facendo zapping per caso ho assistito ad una gara di nuoto paraolimpica: mi si è aperto un mondo».

Cosa vuol dire?

«A febbraio 2014 ho pensato di contattare la Fai sport di Udine, che mi ha subito tesserato. La mia prima gara - i Campionati italiani di società - è arrivata a maggio e, devo dire, è andata piuttosto bene, dal momento che ho ottenuto il pass per i Tricolori individuali Assoluti dove ho vinto un oro, un argento e un bronzo».

Quest'anno, invece, com'è andata?

«Alla grande. Ai Campionati italiani a Busto Arsizio, in Lombardia, sono salita tre volte sul primo gradino del podio: nei 50, 100 stile libero e 50 delfino».

La sua carriera agonistica, però, non è stata tutta rose e fiori. È vero che è stata accusata di aver fatto uso di doping?

«È vero. È una storia di cui, malgrado tutto, mi va di parlare. Per vivere sono costretta a fare uso di molti farmaci, tra i quali il deltacortene (cortisonico). Tutti sono regolarmente segnati nella mia cartella clinica. Ai Campionati italiani Assoluti di Bari del 2014 vengo sottoposta a controllo antidoping, al quale risulto positiva al deltacortene che, lo giuro, non sapevo fosse considerato dopante».

Cosa ha pensato in quel momento?

«Che sarebbe cominciato un altro calvario. Ho pensato, prima di tutto, ai miei familiari e alle persone che mi sono sempre state vicine. Mi sono presa sei mesi di sospensione e, cosa che mi ha fatto stare ancora più male, non ho più potuto essere seguita né da una società né da un allenatore. È in quel periodo che ho conosciuto Erica Buratto che, insieme ad Eleonora Pines, mi segue dal punto di vista tecnico».

Come si è conclusa quella storia?

«Ho voluto presenziare al primo processo che si è tenuto a Roma. Quando mi hanno vista - peso 40 chilogrammi per un metro e 70 di altezza - hanno capito che con il doping avevo ben poco a che fare. Sono stata assolta, nonostante qualche mal di pancia da parte della Procura antidoping, cavandomela con un richiamo verbale».

Lei, quindi, dovrà eliminare il deltacortene se vorrà continuare a gareggiare?

«Purtroppo sì, almeno un mese prima da una gara. Questo, ovviamente, mi provoca non pochi scompensi. Vorrei che la Federazione italiana nuoto facesse sì che persone come me, che vogliono fare sport, non venissero bistrattate solo perché sono costrette ad assumere determinati farmaci».

Il prossimo anno ci sono le Olimpiadi a Rio de Janeiro. Ci ha fatto un pensierino?

«È un sogno che mi piacerebbe realizzare, ma del quale ho quasi paura a parlare. Più per l'età che per altro».

Qual è il suo sogno nel cassetto?

«Riuscire a spiegare alle tante persone affette da una malattia come la mia o più grave che non bisogna abbattersi. Che, prima di tutto, non bisogna nascondersi e che le cose fatte con il cuore vanno al di là di ogni limite».
Ultimo aggiornamento: 3 Agosto, 11:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci