Gli "anta" di Pietro il grande
il campionissimo del fondo

Venerdì 19 Dicembre 2014 di Silvano Cavallet
Pietro Piller Cottrer
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BELLUNO - "La vita comincia a quarant'anni (Life begins at forty)": era il titolo di un film e di una fortunata serie televisiva britannica. Che davano conto delle possibilità legate al raggiungimento degli "anta". Per lui, però, non si tratta di una scoperta. Lui è Pietro Piller Cottrer che domani taglierà questo traguardo. E che, semmai, pensa alla continuità. Come spiega in questa intervista.

È passato un pò di tempo dalla tua uscita dall'agonismo. Come definiresti quel periodo?

«Un periodo dal bilancio sicuramente positivo. Fatto di tante soddisfazioni, di obiettivi quasi tutti raggiunti, anche di pause che, però, mi sono servite per ripartine non rinnovata lena. Soddisfatto: ecco, mi dichiaro soddisfatto».

Che ricordi hai della tua entrata nel giro delle Nazionali?

«Finite le medie, avevo scelto il linguistico per rimanere vicino a casa. E continuare con lo sci, naturalmente. In Nazionale sono arrivato a 14 anni, uno dei pochissimi - mi pare - a essere schierato tra gli Junior pur essendo ancora Aspirante. E tre anni dopo (17 anni e un mese, per la precisione, ndr) , la chiamata dell'Arma. Chiaro che il futuro ti si presenta nuovo e diverso».

Come ricordi l'ambiente azzurro?

«Io continuavo a non fare calcoli, a sciare in modo spensierato, a divertirmi. Favorito, in questo, dall'approccio usato dal primo allenatore federale, Giuseppe Gazzotti. Di fatto, un prolungamento di quanto aveva fatto Eliseo (Sartor, ndr). Sono potuto crescere con gradualità, senza strappi e senza particolari pressioni. Per dire, alla prima uscita internazionale da Junior non è che abbia fatto un figurone, anzi. Ma - a parte che quella era una generazione di fenomeni - ho continuato con la stessa tenacia. E qualcosa è poi arrivato».

Se dovessi scegliere il momento che più ha caratterizzato la tua vita agonistica?

«Venti anni fa, proprio di questi giorni. A Sappada arrivava la Coppa del Mondo. E io avrei disputato la mia prima gara di Coppa. Pensa: esordio in casa mia, con la mia gente attorno, a un paio di giorni dal compleanno. Ricordo benissimo che passai insonne la notte della vigilia. Pensando a ripensando a quell'anello che, ovviamente, conoscevo come le mie tasche. Tra l'altro, erano cinque chilometri di neve, oggi appena qualche centinaio di metri. Alla fine, chiusi novantunesimo e appena fuori dei 30 nel successivo recupero. Ma l'emozione, quella rimane intatta».

Qual è stato il momento più lieto? e quello più triste?

«Non mi rifarei necessariamente ai successi e o alle medaglie. Penso, piuttosto, alla Val di Fiemme (2003) o a Oslo (2010). Quando ho colto, negli occhi dei miei tifosi, il loro sostegno, la loro passione, il fatto che mi volevano spingere verso un risultato che avrebbero sentito anche come loro. Indimenticabile. E pure per il lato triste. Non le cadute, non la neve marcia che mi ha frenato a Sapporo quando ero in splendida condizione. Invece la vigilia di Vancouver quando abbiamo scelto di gareggiare con il lutto sul pettorale per ricordare Riccardo De Martin. Un amico, un atleta, un carabiniere come me».

Hai girato il mondo e conosciuto tante persone. Di chi serbi il ricordo migliore? e chi vorresti cancellare dai tuoi ricordi?

«Domanda impegnativa. Credo che il ricordo più vivo sia un mix. Un mix tra i miei genitori ed Eliseo. Lui per il lavoro di base che mi ha permesso di arrivare in alto. I miei genitori per la capacità di assecondare i miei desideri. Per la straordinaria capacità di non esaltarsi, quando vincevo, e di non abbattersi se i risultati non arrivavano. Così, mi hanno fornito i presupposti per crescere; come atleta e - soprattutto - come persona. Quanto a cancellare, no non mi viene in mente nessuno. Diversità di vedute, magari; rapporti più formali ma nessuno screzio memorabile».

Sei rimasto nell'ambiente. Com'è stato il passaggio?

«Lineare e senza strappi. Di fatto, negli ultimi anni di impegno agonistico mi ritrovavo a fare considerazioni tecniche che, ora, ho approfondito e allargato. Certo, ho bisogno di crescere (per esempio, mi scopro ad essere coinvolto emotivamente con le ragazze della squadra, ma è lo scotto del noviziato. Tra dieci anni sarà certamente diverso!».

Come ti sembrano, tecnicamente e umanamene, le atlete affidate alle tue cure?

«È un ottimo gruppo. Che lavora con impegno, che esprime solidarietà ma che - al bisogno - sa far uscire la grinta. Insomma: unghie colorate che sanno diventare artigli. D'altra parte, è così che si cresce. Alle ho regalato un libro 'Alzare l'asticellà che spiega proprio questo».

Quali cambiamenti sono maturati tra il mondo del giovane Pietro e questo, 25 anni più tardi?

«Tantissimi, è ovvio. Cambiamenti che riguardano ogni aspetto dell'attività. Mi limito a ricordare la facilità che c'è oggi di tenersi in costante contatto, di scambiarsi impressioni, di confrontare esperienze».

Che cosa ti aspetti dal futuro; quello personale e familiare ma, anche. quello del Paese?

«Per natura sono ottimista. Certo, non mi nascondo che ci sono difficoltà, ma continua a pensare che il bicchiere sia mezzo (forse anche un pò di più) pieno. E che tutti possiamo (e dovremmo) portare il nostro contributo per colmarlo. Se vogliamo, ce la possiamo fare».

Già. Per intanto, auguri Pietro!

Ultimo aggiornamento: 20 Dicembre, 11:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA