VENEZIA - Perdersi nello spazio, perdersi in un teatro, infine perdersi scalando la vetta più alta del mondo: l’apertura di Mostra a Venezia ormai è diventata un’abitudine.
Com’è noto si tratta della storia vera di due spedizioni in Nepal nel maggio 1996, la cui sfida è finita in tragedia (i morti furono 5), che Kormákur rilegge, partendo dallo scritto di Jon Krakauer, giornalista che partecipò al tentativo, con accurata responsabilità cronachistica, azzerando però ogni possibile deriva politica e sociale (la commercializzazione turistica di tale impresa, lo sfruttamento degli sherpa, le motivazioni che spingono gli individui ad avventurarsi in simili progetti, che pure Krakauer, a un certo punto del film pone con insistenza). E quindi il tutto si riduce a un lungo, faticoso (anche in sala), a tratti perfino noioso cammino verso la morte o la salvezza, lontani da lavori come “La morte sospesa”, dove la lotta per la sopravvivenza passa attraverso una dimensione esistenziale e un rapporto di amore crudele con le vette, non necessariamente herzoghiano.
In questo film presentato fuori concorso, invece, tutto diventa semplicistico, salite e discese, paura e meraviglia (il set, tra l’altro ha toccato anche la Val Senales), dove il 3D regala soltanto qualche brivido in più nei passaggi più vertiginosi, fotografati con impeccabile devozione da National Geographic da Salvatore Totino. Kormákur sfiora spesso anche il melò, nei rimandi paralleli con le compagne di alcuni protagonisti, ma alla fine il film, nonostante un cast di divistica appartenenza, non è nemmeno così spettacolare, scartando anche l’iperbole muscolare. Insomma due ore di scalata piuttosto piatta. Sulla cima dell’Everest, il cinema resta a bassa quota.
Di ben altro spessore l’esordio di “Orizzonti” con “Un monstruo de mil cabezas” dell’uruguagio (ma cresciuto in Messico) Rodrigo Plá, già premiato a Venezia per “La zona” (Leone del futuro, 2007), dove una donna assieme al figlio adolescente, cerca di far valere con la forza il diritto a usufruire dell’assistenza sanitaria al marito. Ne esce un ritratto cupo e spietato dove la violenza delle Istituzioni genera altrettanta violenza, in un mondo disumano e corrotto, dove gli umili sono destinati a soccombere. Plá forse imprigiona il film in una struttura troppo scritta, ma con l’uso meticoloso dei fuori fuoco e dei fuori campo (a cominciare dalle fasi processuali, rese in modo atemporale), crea un’atmosfera di vivido dolore e disperazione, che la fotografia desaturata descrive in modo eloquente.