«Così ho salvato mia mamma dal focolaio del virus nella casa di riposo»

Mercoledì 29 Aprile 2020 di Olivia Bonetti
La testimonianza di una figlia che ha recuperato la mamma nel focolaio di Covid che si era creato in una rsa
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 «Sono riuscita a portare a casa mia mamma: se fosse rimasta ancora lì dentro non so come sarebbe finita». Serena Sampieri racconta l’incubo vissuto in questi due mesi in cui la madre, Enrichetta Molin, era nella struttura di Trichiana, al centro del focolaio Covid scoppiato in queste settimane. È riuscita a riportarla a casa ed Enrichetta è negativa al virus. Pur vivendo nell’epicentro di quello terremoto che ha scosso la struttura, è comunque riuscita a uscirne. Ma i segni di quello che ha passato se li porta addosso.

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«La mattina che sono andata a prenderla - spiega Serena - ho subito uno choc perché non sembrava più la stessa persona che avevo visto nelle videochiamate fino a pochi giorni prima. Era psicologicamente a terra, gli occhi spenti, con la bocca aperta e la dentiera che le sporgeva, aveva addosso abiti sporchi, capelli sporchi, unghie nere e lunghe, inoltre aveva il collo completamente bloccato dai dolori cervicali per aver cambiato letto più volte e per essere stata lasciata su una sedia priva di poggiatesta e legata». «Tutto inizia un pomeriggio di febbraio- racconta la figlia - quando la casa di riposo di Trichiana mi avvisa che la struttura era stata chiusa alle visite esterne, a causa del coronavirus. Da quel giorno non ho più incontrato fisicamente mia mamma se non per alcuni minuti, ogni 4/5 giorni dietro una porta a vetri, dove riuscivamo a vederci e dirci ben poche cose. La fortuna, per me, è stata che lei sa usare un po’ il cellulare per mandare degli sms e per fare delle videochiamate». 

«Verso metà marzo - prosegue - andai a portarle delle cose e notai che molti operatori presenti, che passavano vicino alla portafinestra, non indossavano i dispositivi di protezione individuale previsti dal Governo. Mi venne spontaneo fare una telefonata alla direttrice della Valbelluna Servizi, che mi rispose che ciò era impossibile e mi disse di stare tranquilla che tutti i protocolli erano seguiti alla lettera. Ho anche pensato che chi lavorava dentro non volesse mettere i Dpi, per poi scoprire che non era così, ma che purtroppo sono stati forniti solo dal 2 aprile in poi, quando il danno era già stato fatto. Prima se un operatore o infermiere non aveva una sua mascherina doveva lavorare senza». La donna invia anche due mail con richiesta di spiegazioni e non riceve risposta. «Sono stati fatti i test sierologici a tutti gli ospiti: non mi è stato dato il risultato di mia mamma, se non dopo 5 giorni - prosegue la figlia -, dopo aver sollecitato. È stata spostata dalla sua camera singola di mattina e sono stata avvisata di sera alle 18.30 con una misera chiamata. È stata lasciata nella nuova camera con gli abiti che aveva addosso anche per la notte e la sera dopo ancora non aveva ricevuto nulla della sua roba da vestire e per la cura personale. Il giorno dopo mi disse che erano già 10 giorni che non le veniva fatto il bagno settimanale e che non le lavavano nemmeno i capelli, i piedi. Oltretutto una notte è caduta in bagno». «Gli esami sierologici - sottolinea - hanno complicato ancora di più le cose perché alcuni risultati negativi erano positivi e il contrario, così gli ospiti sono stati nuovamente rimescolati. Poi, per fortuna, sono stati richiesti i tamponi: mia madre era negativa, ma la sua compagna di camera no. Ha dovuto isolarsi nuovamente e ripetere il tampone che ha di nuovo dato risultato negativo». «Nell’attesa del secondo tampone - dice la figlia - è stata spostata negli alloggi esterni da sola. Da lei ho saputo che è caduta ancora una volta prendendo una forte botta sul costato sinistro per poi essere messa su una sedia e legata con l’imbragatura per non farla alzare e, per la notte, le sono state messe le sbarre al letto. Presidi non accordati con i parenti: non ci hanno detto nulla. In quella sezione distaccata, pensata per autosufficienti le cose sono ulteriormente peggiorate, perché il personale non era sufficiente perseguire tutti: se uno faceva i bisogni se li teneva addosso finché qualcuno non arrivava». 

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«Il 25 aprile l’ho portata a casa - racconta Sampieri - e siamo riusciti a farle una doccia perché ne aveva veramente bisogno: solo verso sera ha iniziato a riprendere a parlare, perché prima non riusciva nemmeno a farlo. La prima notte l’ha passata con incubi ricorrenti di quello che aveva appena vissuto e il giorno dopo ha iniziato pian piano a raccontarci quello che le era capitato». «Ora - conclude -, dopo aver raccontato la sua agonia, voglio sapere cosa non ha funzionato all’interno della struttura. Assolutamente non punto il dito contro chi fisicamente lavora all’interno a stretto contatto con gli ospiti, perché essendo stati ridotti al minimo, a causa dei contagi, hanno cercato di fare del loro meglio. Voglio però delle risposte concrete, scritte e giustificate su tutto quello che è successo perché mia mamma è stata rovinata e traumatizzata. Nonostante si dica che sono solo vecchi, sono i nostri genitori e hanno diritto a un trattamento adeguato. Anche perché i servizi nella casa di riposo vengono pagati e non poco».

LA STORIA 

Ultimo aggiornamento: 30 Aprile, 09:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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